III

1815-16. TRADUZIONI POETICHE E PRIMI TENTATIVI DI POESIE ORIGINALI

In questo periodo però, nel 1815, accanto al Saggio sopra gli errori popolari degli antichi e all’orazione Agl’Italiani, assistiamo a una svolta che lo stesso Leopardi piú tardi indicherà, quando nello Zibaldone, in un pensiero del 19 settembre 1821, dirà che in lui c’era stato un passaggio dall’erudizione al bello, che questo passaggio era avvenuto in modo non subitaneo ma graduato e che egli era diventato a poco a poco poeta, dopo aver letto e tradotto parecchi poeti antichi[1]. Il Leopardi non solo ci dà qui un’indicazione assai interessante sullo svolgimento «gradato», graduato, lento di questo suo passaggio alla poesia, ma ci indica anche l’importanza che può essere data, fra il 1815 e il 1816, alle sue traduzioni poetiche, come lento avvicinamento alla poesia personale. E infatti, volendo vedere in generale lo schema di questi anni, si può notare che già da quella annotazione iniziale del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, dove aveva parlato dei poeti antichi come di «incantati alberghi delle muse» e già dalle traduzioni di piccole citazioni poetiche greche nel contesto dello stesso saggio, passando poi alle traduzioni piú impegnative e autonome, il Leopardi viene appunto lentamente passando dalla zona di carattere piú erudito (e pur non priva di certe disposizioni scrittorie) a una fase di maggiore interesse per la letteratura e per la poesia. Maggior interesse che a poco a poco, attraverso le traduzioni, lo condurrà, nel 1816 e poi nel 1817, a esercitarsi direttamente in una poesia propria, originale.

Questo esercizio del tradurre poetico è interessante anche come prova di carattere stilistico, in cui, a poco a poco, la stessa perizia di carattere filologico viene mutandosi in piú precisa cura dello stile e della parola poetica.

E d’altra parte in queste traduzioni poetiche spuntano, cosí come avvertí soprattutto il De Sanctis, anche elementi di una certa consapevolezza critica, di un certo gusto critico[2]. Anzitutto, incontriamo nel 1815 le traduzioni degli idilli di Mosco, che sono appunto la prima traduzione importante del giovane Leopardi, a cui seguirà poi la traduzione della Batracomiomachia, la traduzione di libri dell’Eneide e dell’Odissea, e poi della Titanomachia di Esiodo all’inizio del 1817.

Ma fermiamoci anzitutto su questi idilli di Mosco del 1815. Essi sono, all’inizio dell’attività di traduttore, il documento in qualche modo ancora piú legato a precedenti di carattere tardo-settecentesco. Non solo per talune indicazioni sul tradurre, che nel suo Discorso sopra Mosco[3] il Leopardi riprendeva soprattutto dagli avvertimenti di un celebre traduttore di fine Settecento, il Pagnini, ma anche per i modi stessi di tradurre e per il gusto che in questi idilli si rispecchia, un gusto prezioso, che cerca di unire una grazia semplice a una forma piú raffinata e colta, con un certo sentimentalismo. In sostanza, in questa fase della sua traduzione, Leopardi partecipa ancora a un gusto sostanzialmente tardo-settecentesco; con alcuni modelli ed esempi di traduttori assai vicini in questo momento al suo gusto: da una parte, per quello che riguarda certi elementi neoclassici, quel Pagnini ora ricordato, e dall’altra, per una certa maggiore vivacità sentimentale, per un certo gusto di carattere preromantico, quella solita traduzione di Gessner del Padre Soave che egli aveva già utilizzato in alcuni brani del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. È facile, da questo punto di vista (e lo ha fatto con molta accortezza notare Emilio Bigi in uno studio intitolato «Il Leopardi traduttore dei classici»)[4], ritrovare l’eco di questi modelli di traduzione, anche in quell’Idillio quinto di Mosco che all’esame del De Sanctis apparve addirittura come la prima rivelazione della personalità poetica leopardiana, la base idillica della sua anima e del suo canto, la prima e tenue corda di quella che un giorno sarà un’«orchestra».

Ma il De Sanctis evidentemente non teneva conto di quanti diretti echi e di quale abilità compositiva si servisse Leopardi per costruire la sua traduzione. Indubbiamente l’Idillio quinto di Mosco, come noi lo leggiamo nella traduzione leopardiana, risente fortemente della traduzione del Pagnini dello stesso idillio, cosí come risente, attraverso certe venature di carattere piú sentimentale ed elegiaco, della interferenza delle traduzioni gessneriane del Soave. E anche preso a sé, staccato da questa sua base di elaborazione, l’Idillio quinto non è tale da portarci a consentire con il rapido, entusiastico, affascinante giudizio desanctisiano. Perché la stessa lettura diretta (a parte tutti gli echi che ritornano di modelli ricordati) ci fa avvertire un tipo di idillismo di carattere ancora fortemente tardo-settecentesco, un tipo di idillismo ancora fortemente edonistico, fortemente descrittivo, lontano da quello che sarà l’idillio leopardiano nella fase del 1819 e 1820, specie nella direzione dell’Infinito e della Sera del dí di festa.

Questa traduzione del 1815, che al De Sanctis sembrava profetica, si profilava in realtà sul margine di un esercizio molto abile e molto sensibile, ma non tale da implicare la somma di forze che il vero idillio leopardiano richiede:

Quando il ceruleo mar soavemente

increspa il vento, al pigro core io cedo:

la Musa non mi alletta, e al mar tranquillo,

piú che alla Musa, amo sedere accanto.

Ma quando spuma il mar canuto, e l’onda

gorgoglia, e s’alza strepitosa, e cade,

il suol riguardo, e gli arbori, e dal mare

lungi men fuggo: allor sicura, e salda

parmi la terra, allora in selva oscura

seder m’è grato, mentre canta un pino

al soffiar di gran vento. Oh quanto è trista

del pescator la vita, a cui la barca

è casa, e campo il mar infido, e il pesce

è preda incerta! Oh quanto dolcemente

d’un platano chiomato io dormo all’ombra!

Quanto m’è grato il mormorar del rivo,

che mai nel campo il villanel disturba![5]

Si tratta certo di una traduzione assai fine, misurata, sensibile; l’idillio è qui ancora intonato a una impostazione piú apertamente edonistica che potrà avere al massimo qualche raccordo con i margini piú convenzionali e tradizionali che ritroveremo nel 1819 intorno ai centri piú intensi e personali dell’idillio leopardiano, configuratosi sempre piú (secondo una tarda definizione del Leopardi) nelle forme di una poesia esprimente «situazioni, affezioni, avventure storiche del [proprio] animo»[6].

D’altra parte, nella stessa versione degli idilli di Mosco, l’attenzione del critico non può fermarsi solo sull’Idillio quinto: ché in altri idilli (e specie nell’Idillio terzo, Canto funebre di Bione) si avverte un prevalente tono elegiaco, sentimentale che allontana assai dall’idillismo piú edonistico e prezioso del quinto. Tanto che certi brani dell’Idillio terzo potrebbero fare affermare (a voler ripetere in altra direzione l’operazione desanctisiana di scelta e di indicazione di un’anticipazione della personalità poetica leopardiana) che l’accento elegiaco è il piú schietto e forte in queste traduzioni poetiche e che esso rappresenta la prima voce sintomatica di un elemento essenziale nella futura poesia leopardiana.

Si rilegga cosí questa sequenza di versi:

Sicule Muse, incominciate il pianto.

Quel sí caro agli armenti or piú non vive.

Sotto romita quercia in cheta valle

tranquillamente assiso, ei piú non canta.

Ma nel regno di Pluto or tristamente

ripete la funesta aria di Lete.

Tacciono i poggi, e intorno al bue piangendo

aggirasi la vacca, e i paschi obblia. (vv. 25-32)[7]

O si rilegga, in una direzione ancor piú fortemente elegiaca, quest’altro passo:

Sicule Muse, incominciate il pianto.

Ahi tristi noi! poi che morír negli orti,

le malve, o l’appio verde, o il crespo aneto,

rivivono, e rinascono un altr’anno.

Ma noi ben grandi, e forti uomini, e saggi

dormiam poiché siam morti, in cava fossa

lunghissimo, infinito, eterno sonno,

e con noi tace la memoria nostra.

Or tu sotterra in tenebroso loco

sempre muto starai. [...] (vv. 139-148)[8]

Ma anche qui se si riprendono da una parte la traduzione che di quell’idillio aveva dato il Pagnini, e dall’altra gli Idilli del Gessner, si potrà vedere come lo sviluppo di una personale sensibilità elegiaca (o idillico-elegiaca) del giovane Leopardi sia fortemente legato a stimoli e a toni di quelle basi letterarie e specie a certi elementi idillico-elegiaci del preromantico svizzero che tanta importanza ebbe nella sua formazione stilistica e tematica.

Sí che ritengo utile riportare alcuni passi degli Idilli gessneriani (nella versione del Soave)[9] che poterono offrire avvii e moduli e termini di linguaggio al Leopardi nella direzione idillica ed elegiaca.

Si rilegga cosí l’inizio dell’idillio La Serenata:

Era la notte placida e serena,

e di ponente un venticel leggiero

l’ardor temprava del caduto giorno; [...]

[...] i campi

erano queti: [...]

della pallida Luna il solo raggio

sull’onda mormorante de’ ruscelli

gía tremolando; e qualche luccioletta

vagava pur fra ’l bujo; ogni altro lume

era già spento. [...][10]

O quest’apertura di scena lunare nella Dichiarazione:

Già dietro a quelle scure erte montagne

s’alza la Luna, già il suo argenteo lume

splende attraverso a’ pini, che corona

fanno all’acute cime. [...][11]

O questa invocazione alla luna, sempre nella Dichiarazione:

Pallida e queta Luna, or testimonio

tu sii de’ miei sospiri. [...][12]

O questo paragone fra la caducità del narciso e della giovinezza:

In tua freschezza ancor l’alba ti vide;

or se’ svenuto: ahi lasso! cosí pure

la giovinezza mia si verrà meno, [...][13]

E si profilano figure di fanciulle illuminate dalla gioventú, dalla bellezza, dall’innocenza:

Il primo fior dell’innocenza in volto

le sorridea; […][14]

[...] l’ilarità sul volto

gli brillava, e la fresca giovinezza.[15]

Mentre a esse si accompagnano cadenze dolenti (che poterono fondersi, nella memoria leopardiana, con i piú precisi moduli elegiaci ossianeschi) sul tema dell’“acerba rimembranza”, della scomparsa della vita:

Ahi, che tu piú non vivi! piú non vivi,

di mia vita conforto, e nella nostra

miseria unico schermo, unica speme.[16]

Sul contrasto fra l’immagine rievocata della bellezza femminile o di una illusione giovanile e la loro perdita:

Era la gioja mia fedel compagna,

or mi fugge, e m’aborre: ombre lugubri

scendon per me dai boschi, amene un giorno.

Il solo aspetto delle verdi piante

felice mi rendea: se i vaghi fiori

spandeano intorno a me grati profumi,

io mi credea... Ma oh Ciel! tutto disparve,

ogni gioja, ogni ben. [...][17]

E nel paesaggio a tenui colori, piú tardi ripreso nel Tramonto della luna, particolari di linguaggio e spunti di situazione contemplativa sembrano contribuire alla complessa genesi dell’Infinito e del brano contemplativo della Vita solitaria: «ermo loco», piacere della solitudine, paragone di un luogo limitato e di spazi infiniti:

[...] O voi liquidi piani,

al cui confine questi occhi non vanno,

ditemi voi, se questo picciol punto,

quest’isoletta, cui l’ondoso seno

vostro circonda, che ben punto, e nulla

è comparata a voi, laghi infiniti, […][18]

D’altra parte, a ridurre il peso della indicazione desanctisiana sul significato della versione dell’Idillio quinto di Mosco e sul suo valore di sintomatica apertura della essenziale natura idillica del Leopardi, occorrerà anche notare come in questo periodo il giovane scrittore potesse liberamente passare dalla versione di Mosco a quella del poemetto pseudomerico, la Batracomiomachia, in direzione di toni comici e parodistici e con un’adesione e un interesse cosí forti a quel testo che egli ne riprenderà e perfezionerà la versione altre due volte (nel ’21-22 e nel ’26) per servirsi poi dello schema e dell’allegoria di quel poemetto nei tardi Paralipomeni della Batracomiomachia.

La Batracomiomachia o Guerra dei topi e delle rane è una prova notevole della maturazione della scrittura leopardiana nella direzione di un linguaggio scorrevole, gustoso, su quella tonalità di parodia e di comicità che era del resto inerente al tema del poemetto pseudomerico. Naturalmente la nostra conoscenza di altre due redazioni successive di questa traduzione ci fa vedere come sulla via dell’intonazione parodistico-comica il Leopardi potesse ulteriormente poi sviluppare le sue capacità scrittorie in una maniera molto piú elegante e fine. Basterà in proposito ricordare la protasi del poemetto nella versione del 1815-16:

Grande impresa disegno, arduo lavoro:

o Muse, voi dall’Eliconie cime

a me scendete, il vostro aiuto imploro:

datemi vago stil, carme sublime:

antica lite io canto, opre lontane,

la Battaglia dei topi e delle rane. (vv. 1-6)[19]

Di per sé questa sestina iniziale (il Leopardi componeva la sua traduzione in sestine, sull’esempio degli Animali parlanti, poemetto satirico del Casti della fine del Settecento) mostra già una notevole mano di scrittore, con un certo gusto parodistico e una forte volontà di comicità. Ma successivamente, se noi guardiamo la versione del 1821-22, troviamo che il Leopardi ha cercato nella prima parte della strofa una migliore struttura di discorso poetico, una sintassi poetica piú complessa:

Mentre a novo m’accingo arduo lavoro,

o Muse, voi da l’Eliconie cime

scendete a me ch’il vostro aiuto imploro:

datemi vago stil, carme sublime:

antica lite io canto, opre lontane,

la Battaglia de’ topi e de le rane. (vv. 1-6)[20]

La prima parte della sestina è stata rifatta, con un gusto piú fluido, con una capacità di sintassi piú legata e in qualche modo piú elegante.

Quando poi si giunge al 1826 e si rilegge la stessa protasi del poemetto, si trova una ancor maggiore finezza e anche una minore ricerca di facile effetto:

Sul cominciar del mio novello canto,

voi che tenete l’eliconie cime

prego, vergini Dee, concilio santo,

che ’l mio stil conduciate e le mie rime:

di topi e rane i casi acerbi e l’ire,

segno insolito a i carmi, io prendo a dire. (vv. 1-6)[21]

C’è un fare piú morbido che rivela lo scrittore maturo, che è passato addirittura attraverso l’esperienza delle Operette morali e che non cerca gli effetti piú vistosi della stagione iniziale. Scompaiono le parole grosse («arduo lavoro», «carme sublime») e tutto semmai è concentrato nel finale attraverso una forma piú fine, piú acuta («i casi acerbi e l’ire», in cui evidentemente c’è la parodia dell’inizio dell’Iliade, «L’ira funesta»). Ma osservato questo, cioè che la prospettiva parodistica, satirico-comica, impiantata nel 1816 aveva evidentemente possibilità di molto maggiore sviluppo nelle epoche successive, la versione del 1815-16 resta nel suo complesso una delle cose piú complete ed equilibrate del Leopardi traduttore.

D’altra parte può interessare anche il preambolo di questo poemetto per la prosa che precede la versione (tutte queste traduzioni sono precedute da prose di carattere espositivo e critico insieme, in cui il Leopardi espone i principi di una poetica del tradurre):

Cercai d’investirmi dei pensieri del poeta greco, di rendermeli propri, e di dar cosí una traduzione che avesse qualche aspetto di opera originale, e non obbligasse il lettore a ricordarsi ad ogni tratto che il poema, che leggea, era stato scritto in greco molti secoli prima. Volli che le espressioni del mio autore [...] si fermassero alquanto nella mia mente, e conservando tutto il sapor greco, ricevessero l’andamento italiano, e fossero poste in versi non duri e in rime che potessero sembrare spontanee.[22]

Si vede l’affinamento progressivo del giovane Leopardi in questa poetica della traduzione, in cui dopo aver affermato (all’altezza degli idilli di Mosco) soprattutto l’esigenza della fedeltà (che rimarrà motivo fondamentale del tradurre leopardiano) aggiunge particolari piú sensibili e intimi e prospetta una operazione piú complessa e piú sottile, una specie di fusione tra fedeltà e originalità.

Successivamente alla versione della Batracomiomachia, nel 1816 troviamo un maggior numero di scritti del Leopardi che indicano come la sua attività venga espandendosi e la sua personalità cominci a entrare in un piú forte movimento fra esigenze di affermazione personale (l’aspirazione alla gloria, la volontà di rendersi noto ai letterati milanesi: egli pubblicava i suoi scritti sullo Spettatore del milanese Stella) ed esigenze piú intime, legate al suo gusto filologico e critico e alla sua crescente tensione verso la poesia.

Ansia di poesia che, nella seconda parte dell’anno 1816, condurrà il giovane a tentativi di poesia originale, ma che si avverte anche sulla via delle traduzioni; esse, al di là dei testi già tradotti, pertinenti a una zona di poesia piú alessandrina, si volgono ora a testi piú impegnativi; anzitutto l’Odissea, di cui il Leopardi traduce il canto primo e l’inizio del secondo. In questa nuova versione prevale una maggiore volontà di adeguare il testo antico attraverso un linguaggio fortemente arcaico, pieno di latinismi, di trecentismi, di parole composte secondo l’esempio della lingua greca, in una direzione puristica che tende a superare (e tanto piú rigidamente nella prosa di questo periodo, nelle prefazioni e negli scritti filologici e critici) le forme piú francesizzanti o ibride dei saggi del ’14-15, e che, mentre rinforza il classicismo leopardiano, sarà poi attenuata e ricondotta a forme meno rigide dalla lezione del Giordani, col suo purismo tanto piú moderato e tanto meno pedantesco.

Ne nasce, nella versione dell’Odissea, un testo piuttosto opaco e pesante e tuttavia interessante per questo sforzo del Leopardi di avvicinarsi a un’opera antica attraverso la patina arcaica del suo linguaggio. Sforzo di ricreazione dell’arcaicità dell’antica poesia a cui si può associare quel singolare tentativo di ricreare addirittura testi antichi o di tradurre da testi antichi realmente inesistenti e immaginati, scoperti in antichi codici: l’Inno a Nettuno e le Odae adespotae, in cui il Leopardi dava prova del suo eccezionale possesso delle lingue classiche (tanto da indurre in errore con questi falsi i dotti del suo tempo) e portava sin all’assurdo la sua volontà di far propria la poesia antica tanto da ricrearla direttamente con questi componimenti da lui inventati.

Ma di fronte a questa tendenza che porta quasi all’assurdo la volontà del Leopardi di avvicinarsi all’antica poesia, sorgente di ogni poesia, attraverso una serie di falsificazioni e ricostruzioni, ci sono nello stesso periodo, tra la primavera e l’estate del 1816, anche dei tentativi piú personali, di vario valore; anzitutto La dimenticanza[23], un componimento dal tono comico vicino ai componimenti scherzosi dei primi anni[24]. Questo componimento si presenta in realtà come un facile scherzo, come un’opera di alleggerimento e di divertimento che utilizzava le vecchie forme già esperite nel periodo puerile, riprendendo una piccola vicenda infantile: una beffa giocata dai ragazzi Leopardi al pedagogo, assalito (durante una gita in campagna) da Giacomo con un ombrello che il pauroso pedante scambia per il fucile di un brigante, rimproverando poi i ragazzi per il loro gesto sconsiderato che avrebbe potuto avere gravi conseguenze se lui fosse stato armato (come piú tardi sbadatamente mostra di essere, cavando di tasca un solido coltello inglese).

Si tratta dunque di un facile scherzo da non prendere troppo sul serio, e su cui non si può neppure troppo insistere per certo colorito di paesaggio molto alla brava, con rapide pennellate come queste: «Allor che gli astri brillano / nel cielo azzurro e puro, / e splendono le lucciole / sul verde suolo oscuro: [...] nella stagion piú fervida, / in una notte bruna, / fresca, serena, placida, / bella, ma senza luna» (vv. 5-8 e 13-16). Non è il piú profondo dipingere leopardiano, è una forma, ripeto, di pennellate rapide e alla brava, che sono ben connesse al tono di scherzo che ha tutto il piccolo componimento.

Piú interessanti sono invece il componimento intitolato Le rimembranze e l’abbozzo di tragedia, Maria Antonietta.

Il primo (Le rimembranze) consiste in un idillio elegiaco, un idillio funebre[25].

Evidentemente il Leopardi, in questi suoi nuovi tentativi di poesia, cerca di appoggiarsi (come nel caso della Dimenticanza) sulle precedenti esperienze dei «puerili» o su quei soliti testi a lui vicini in questo periodo: nel caso presente, l’Idillio terzo di Mosco (Canto funebre di Bione) e gli Idilli di Gessner, soprattutto quello intitolato La tomba dell’uom dabbene, un idillio funebre. Le rimembranze son dunque ancora limitate dalla forte presenza di precisi modelli e tuttavia non sono prive di qualche interesse: infatti nel Leopardi si viene sempre di piú accentuando una spinta verso il patetico e il sentimentale, come si può notare persino in quella grigia traduzione dell’Odissea, in cui a volte il traduttore sottolineava, magari con un semplice aggettivo, certi momenti piú patetici e piú intensi del testo. E quindi, in questo momento, Le rimembranze e la ripresa gessneriana meglio corrispondono a una disposizione leopardiana piú volta all’espressione sentimentale, che, nel periodo che stiamo analizzando, avrà il suo epilogo piú interessante nell’ultima parte della Cantica Appressamento della morte. Inoltre nelle Rimembranze si avverte anche un certo piú insistito impiego di sensibilità, assai interessante come, per esempio, in questa descrizione di una casa al primo mattino:

[...] Pur vidi

aperta una finestra, intorno a cui

sporgea ferrea ringhiera, e dentro l’ampia

camera Signoril, sul pavimento

e il lucido apparato, che l’opposta

parete ricopria, dal sol dipinta

l’immagine mirai della finestra.

A cui dinanzi con negletta veste

un dei servi passar vidi, che intento

sulla scopa pendea. [...] (vv. 64-73)[26]

C’è naturalmente quel tanto di aggraziato che deriva dagli esempi gessneriani, ma c’è anche quel gusto di una visione allontanata, quella vista piú “vaga” e meno immediata, su cui il Leopardi tornerà con ben altra capacità e altezza, in alcuni dei suoi idilli; e insieme si avverte una continua, forte pressione elegiaca (componente essenziale della futura poesia leopardiana).

Ancor piú interessante sulla via di una tensione sentimentale sempre piú forte e sincera appare l’abbozzo di tragedia, la Maria Antonietta (cominciato il 30 luglio del 1816)[27] che, di fronte alle tragedie del periodo “puerile”, porta sia la singolare novità della presenza di personaggi femminili (Maria Antonietta e Maria Carlotta, sua figlia, i soli personaggi chiaramente individuati nell’abbozzo, che comportano un’indagine nella psicologia femminile permettendo un particolare sviluppo di elementi teneri e affettuosi), sia un tipo di eroismo meno libresco e paradossale nello svolgimento di una storica situazione schiettamente drammatica ed elegiaca, che insieme ci riporta a sottolineare il rapporto del Leopardi con quella pubblicistica antirivoluzionaria e antifrancese cui egli era ancora legato (pubblicistica di cui la biblioteca Leopardi era ricca) e che aveva glorificato il “martirio” della regina di Francia.

Tutta la lettura dell’abbozzo è interessante, ma particolarmente colpiscono un lettore consapevole dei successivi sviluppi della poesia leopardiana certi accordi di «magnanimità» e «tenerezza» su cui il Leopardi piú volte insiste, di «trasporti fierissimi, tenerissimi», che esprimono la tensione sentimentale crescente del giovane scrittore, o, nella parlata iniziale della regina, il tema del contrasto struggente fra il passato felice e il presente doloroso, il tema della «memoria acerba» (spia anche della incidenza di letture preromantiche, in particolare di quei Canti di Ossian che saranno poi cosí importanti nello sviluppo della poesia leopardiana), e quella attenzione sensibile ed elegiaca a una scena percepita attraverso suoni e rumori e il loro degradare e cessare, che sarà cosí altamente attuata nella Sera del dí di festa. Come può vedersi nella parlata di Maria Carlotta che segue trepidando, senza vederla (e appunto solo attraverso suoni e rumori) la vicenda drammatica dell’allontanarsi del carro che porta la madre al patibolo, dello scontro fra le guardie repubblicane e i congiurati che tentano di rapire e salvare la regina, della ripresa della marcia del carro che significa l’esito negativo del tentativo dei congiurati:

[...] il carro si muove... s’incammina... suono di tamburi... voci fiere di comandanti frammiste... cannoni strepito sempre crescente.., tamburi cessano... fragor di spade... tumulto... (certo sono i congiurati... Oh Dio... Salvami..., salva la madre) tutto è finito, non c’è piú speranza... la congiura è svanita... o madre, a morir vai [...] appoco appoco cessano i cannoni... s’acqueta il tumulto... m’inganno o sento di nuovo lo strepito del carro che torna a incamminarsi... suono di tamburi nuovamente... tutto s’allontana appoco appoco... silenzio...

Contemporanea all’abbozzo della Maria Antonietta è poi quella lettera ai compilatori della Biblioteca Italiana (18 luglio 1816)[28] con cui il Leopardi prendeva posizione in difesa della poesia classica e del classicismo italiano contro la celebre lettera di Madame de Staël sull’utilità delle traduzioni delle opere straniere. La lettera leopardiana (che non venne pubblicata dalla Biblioteca Italiana) è documento assai interessante di questo periodo ricco di fermenti, di idee, di ansia di poesia. Mentre tenta prove di poesia personale e cerca di far propri, attraverso le traduzioni, i motivi della poesia classica, Leopardi sente il bisogno di proclamare pubblicamente la sua fede nella poesia come «Scintilla celeste, e impulso soprumano», nella poesia classica come poesia autentica, naturale, in quanto piú vicina alla vera «castissima santissima leggiadrissima natura»[29]. E cosí facendo, egli ci spiega le ragioni del suo particolare classicismo non pedantesco e non puramente imitatorio e archeologico e presenta insieme per la prima volta (anticipando l’uso che ne farà nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica e nello sviluppo speculativo dello Zibaldone) il suo grande tema del contrasto fra natura e ragione: la poesia romantica è poesia della civilizzazione e della ragione, la poesia classica (e quella che a essa si rifà) è poesia della natura.

Sicché, da questa presa di posizione, da questo atto di fede nella poesia e nella poesia classica egli è riportato di nuovo alle traduzioni dei classici, passando a impegnarsi su testi alti e sublimi, ricchi di forza eroica e patetica; come appunto dové apparirgli il secondo canto dell’Eneide, nella cui traduzione (opponendosi alla versione del Caro che gli sembrava, come scriveva nel discorso introduttivo, troppo familiare, borghese, dimessa) intese evidentemente accentuare nel testo virgiliano i toni patetici ed eroici[30].

Cosí nella direzione eroica è chiara l’accentuazione del traduttore-poeta o nell’invocazione di Enea alla patria («O patria mia, / Troia, di Numi albergo! o Troiche mura», vv. 336-337), o nelle sue parole di disperata volontà di battaglia e di sacrificio («Armi, qua l’armi. / Vinti a morte n’appella il giorno estremo. / Rendetemi a gli Achei, lasciate a nuova / pugna volarmi. Ah non fia ver che tutti / oggi inulti moriamo», vv. 902-906)[31] che anticipano il celebre passo personale della canzone All’Italia. E cosí, in genere, molte parole del testo virgiliano, quelle piú dirette a un tono intenso e patetico, vengono, nella traduzione, ulteriormente caricate e intensificate in modi ancor piú sentimentali e forti, come ha ben mostrato, con un lungo elenco, il Bigi nell’articolo citato su Leopardi traduttore.

E tanto piú ciò avviene, nella direzione del forte e del grandioso, nella successiva traduzione della Titanomachia di Esiodo, in una ricerca quasi estremistica di toni violenti e grandiosi, di un sublime «traforte», assecondato anche dall’impiego di parole arcaiche che volevano contribuire e alla migliore adeguazione di un testo antico e all’intensificazione grandiosa, eccezionale, del testo esiodeo.

Come può vedersi in questo brano:

[...] Orrendamente

l’interminato ponto reboava,

alto strepeva il suol, gemea squassato

l’aperto cielo, e la divina foga

da l’imo il vasto tracollava Olimpo. (vv. 17-21)[32]

Ma con la traduzione della Titanomachia siamo all’inizio del 1817, quando già il Leopardi era ritornato dalle traduzioni a un nuovo e piú impegnativo tentativo di poesia personale con quella Cantica Appressamento della morte (novembre e dicembre 1816) in cui i toni grandiosi e sentimentali avevano avuto un forte impiego in un momento di urgenza espressiva appoggiata a una situazione personale: il presentimento di una morte precoce, il senso di una tragica infelicità invano consolata dall’avvertimento della vanità dei beni mondani e dalla visione religiosa cattolica.

Questa Cantica in cinque canti non fu pubblicata dal Leopardi[33], che dové in seguito trovarla, alla luce del suo gusto maturo, troppo turgida, tumultuosa, caotica. Sí che solo nell’edizione napoletana del ’35 egli ne recuperò una parte tra i Frammenti (il frammento che porta il numero XXXIX dei Canti), modificando fortemente il testo originario e dandogli un taglio e una prospettiva diversi, con una forma di utilizzazione e rinnovamento che possono denotare la finezza di gusto e la genialità dell’ultimo Leopardi.

Cosí, per quello che riguarda le correzioni di parti singole, si potrà ricordare una terzina che già nel testo originario aveva una certa accensione poetica e un iniziale tono leopardiano:

Chiaro apparian da lungi le montagne,

e ’l suon d’un ruscelletto che correa

empiea il ciel di dolcezza e le campagne. (vv. 13-15)[34]

E che nel frammento XXXIX venne profondamente trasformata:

Limpido il mar da lungi, e le campagne

e le foreste, e tutte ad una ad una

le cime si scoprian delle montagne. (vv. 13-15)[35]

Abolendo l’immagine piú diluita e convenzionale del «ruscelletto» e riportando nell’immagine piú profonda e poetica echi dell’inizio della Sera del dí di festa e di un passo delle Ricordanze.

E soprattutto il Leopardi nel ’35 dette al brano del giovanile componimento una prospettiva diversa, come piú misteriosa e suggestiva, cambiando il protagonista della scena (nella Cantica, era il poeta stesso immaginato in una scena di paesaggio prima sereno e poi improvvisamente sconvolto da un temporale che lo riempiva di spavento e preparava la miracolosa comparsa di un angelo annunciatore della morte; nel frammento diveniva un’enigmatica donna «volta all’amorosa meta» (v. 4) che, in un clima teso e pieno di aspettativa di avvenimenti misteriosi, viene sorpresa dall’improvvisa tempesta), e tagliando il brano su di un finale di allibimento e di mistero:

Ella dal lampo affaticati e lassi

coprendo gli occhi, e stretti i panni al seno,

gia pur tra il nembo accelerando i passi.

Ma nella vista ancor l’era il baleno

ardendo sí, ch’alfin dallo spavento

fermò l’andare, e il cor le venne meno.

E si rivolse indietro. E in quel momento

si spense il lampo, e tornò buio l’etra,

ed acchetossi il tuono, e stette il vento.

Taceva il tutto; ed ella era di pietra. (vv. 67-76)[36]

Ma proprio ciò che, nella prospettiva del 1816, piú interessa nella Cantica è il fatto che il Leopardi abbia tentato un componimento di vasto impegno, su di una situazione personale, come avviene piú fortemente nel canto quinto, in cui egli dà voce al suo sentimento di dolore per la immaginata morte precoce e al suo profondo desiderio di vita.

E infatti, in un pensiero dello Zibaldone del luglio del 1820 riprospettando a se stesso il proprio svolgimento poetico e individuando una fase giovanile dominata da una poesia di immaginazione piú che di affetti, notava, alludendo al canto quinto della Cantica: «Ben è vero che anche allora quando le sventure mi stringevano e mi travagliavano assai, io diveniva capace anche di certi affetti in poesia, come nell’ultimo canto della Cantica» [144][37].

E d’altra parte si ricordi, come segno dell’importanza che nella propria storia sentimentale e poetica il Leopardi poteva annettere alla Cantica, e soprattutto al canto quinto, il preciso accenno che vi fa nelle Ricordanze:

[...] Poscia, per cieco

malor, condotto della vita in forse,

piansi la bella giovanezza, e il fiore

de’ miei poveri dí, che sí per tempo

cadeva: e spesso all’ore tarde, assiso

sul conscio letto, dolorosamente

alla fioca lucerna poetando,

lamentai co’ silenzi e con la notte

il fuggitivo spirto, ed a me stesso

in sul languir cantai funereo canto. (vv. 109-118)[38]

Il canto quinto è certo, per le ragioni dette, la parte piú interessante e nuova della Cantica, quella in cui ci è dato avvertire una piú forte vibrazione poetica, anche se in forme piú di sfogo che di compiuta resa artistica.

Ma, per capire lo sforzo fatto dal Leopardi nella costruzione di tutta la Cantica, per capire la sua volontà di complessa e impegnativa costruzione poetica in cui immettere sentimenti e idee di quel periodo, occorre pur brevemente accennare alla costruzione generale del poemetto.

Esso fu costruito in rapporto all’esigenza leopardiana di una poesia insieme sentimentale e d’immaginazione, di una poesia grandiosa e patetica, coerente a certe linee già indicate nell’opera del traduttore. E perciò egli riprese (a parte echi danteschi e petrarcheschi dei Trionfi) soprattutto lo schema delle cantiche e visioni del Monti, che (con la ripresa e il rilancio assai ambiguo della poesia dantesca e l’appoggio delle Visioni morali e sacre del Varano) avevano impostato un tipo di poesia immaginosa e grandiosa, scenografica ed eloquente, tesa al sublime e al grande, anche se per lo piú intimamente debole ed enfatica.

Il giovane Leopardi trovò adatto lo schema montiano per costruire l’espressione del suo mondo interiore ancora immaturo e confuso, ma aspirante a una poesia grandiosa e intensa, immaginosa e sentimentale.

E riprese anzitutto dal Monti lo schema scenografico iniziale (la rappresentazione a effetto e a contrasto di un paesaggio prima sereno e radioso, poi tenebroso e tempestoso), la figura dell’angelo, annunciatore della prossima morte e illustratore della vanità e peccaminosità dei sentimenti e dei beni mondani, la personificazione di sentimenti e di vizi che, nei canti secondo, terzo e quarto della cantica leopardiana, si susseguono segnati tutti da una squalifica religiosa e moralistica (lo stesso amore è presentato solo come peccato e causa di perdizione, sull’appoggio dell’episodio di Ugo e Parisina che vorrebbe gareggiare con l’episodio dantesco di Paolo e Francesca), legata nella prospettiva del Leopardi al perdurare di schemi religiosi cattolici, anche se non manca l’apparizione di certi elementi (l’avversione per la tirannia e l’esaltazione della patria italiana) piú vicini al muoversi delle idee leopardiane nella direzione che sarà poi rafforzata e precisata dall’incontro col Giordani e dalla piú forte lettura dell’Alfieri.

Ma lo schema montiano, la prospettiva scenografica, e la presentazione delle personificazioni, cedono nel canto quinto, in cui prevalgono, con tanta maggiore forza (anche se con squilibri e parti piú retoriche e, in complesso, piú in forma di sfogo e di lirismo che di sicura poesia), i sentimenti piú legati alla coscienza del poeta della sua situazione infelice, della malattia che lo induce a immaginarsi vicino alla morte.

Tutto il canto quinto ha una sua vitalità sentimentale e presenta, in maniera sofferta e inquieta, elementi importanti della futura poesia leopardiana mescolando elegia e tensione alla vita (che solo con difficoltà cede a una rassegnazione religiosa sempre meno consentanea allo spirito leopardiano), anche se, come ho già detto, la resa artistica è ancora ben lontana dalle future possibilità del poeta maturo.


1 Cfr. Tutte le opere, II, p. 483.

2 Cfr. F. De Sanctis, Giacomo Leopardi, ed. critica e commento a cura di W. Binni, Bari, Laterza, 1953 (1961²).

3 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 406-413.

4 Cfr. E. Bigi, «Il Leopardi traduttore dei classici (1814-1817)», «Giornale storico della letteratura italiana», fasc. 434, 1964, pp. 186-234, ora in Id., La genesi del «Canto notturno» e altri studi sul Leopardi, Palermo, Manfredi, 1967, pp. 9-80.

5 Tutte le opere, I, p. 419.

6 Cfr. Disegni letterari, XII, in Tutte le opere, I, p. 372.

7 Tutte le opere, I, p. 416.

8 Tutte le opere, I, p. 417.

9 Idillj scelti di Gesner, tradotti dal P. Francesco Soave, in Il primo navigatore e Idillj scelti di Gesner, al nobile signor conte Pietro Natali Alethy, patrizio di Osimo e Camerino, Osimo, Presso Domenicantonio Quercetti, 1791.

10 Idillj scelti cit., p. 106.

11 I nuovi Idillj di Gesner in versi Italiani con una lettera del medesimo sul dipingere di paesetti, traduzione del P. Francesco Soave, Piacenza 1790, p. 22.

12 Ivi, p. 25.

13 Ivi, p. 26.

14 Idillj scelti cit., p. 125.

15 Ivi, p. 88.

16 Il primo navigatore cit., p. 3.

17 Ivi, pp. 41-42.

18 Ivi, p. 7.

19 Tutte le opere, I, p. 389.

20 Tutte le opere, I, p. 394.

21 Tutte le opere, I, p. 400.

22 Tutte le opere, I, p. 388.

23 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 306-307.

24 Il titolo di questa «burletta anacreontica» si legge in un indice delle opere «da stamparsi quando si voglia» redatto nel novembre del 1816. È probabile però che si tratti della ripresa di una composizione puerile (esiste, tra le carte napoletane, un apografo recanatese datato 1811).

25 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 307-309.

26 Tutte le opere, I, p. 308.

27 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 329-330.

28 Cfr. la Lettera ai sigg. compilatori della Biblioteca Italiana in risposta a quella di mad. la baronessa di Staël Holstein ai medesimi, in Tutte le opere, I, pp. 879-882.

29 Tutte le opere, I, pp. 880, 882.

30 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 434-444.

31 Tutte le opere, I, pp. 438, 442.

32 Tutte le opere, I, p. 448.

33 La prima edizione si ebbe a cura di Z. Volta, Milano, Hoepli, 1880. Si legge in Tutte le opere cit., I, pp. 309-318.

34 Tutte le opere, I, p. 309. Vedi anche G. Leopardi, Appressamento della morte, ed. critica a cura di L. Posfortunato, Firenze, presso l’Accademia della Crusca, 1983.

35 Tutte le opere, I, p. 46. Dei Canti si hanno le seguenti edizioni critiche: a cura di F. Moroncini, 2 voll., Bologna, Licinio Cappelli, 1927 (di cui è stata pubblicata una ristampa anastatica, con presentazione di G. Folena, Bologna, Cappelli, 1978); ed. critica di E. Peruzzi, con la riproduzione degli autografi, Milano, Rizzoli, 1981; ed. critica e autografi, a cura di D. De Robertis, 2 voll., Milano, Il Polifilo, 1984. In questo volume si farà riferimento all’ed. Moroncini, per le ragioni specificate nella Nota al testo.

36 Tutte le opere, I, p. 47.

37 Cfr. Tutte le opere, II, p. 71.

38 Tutte le opere, I, p. 28.